Quanto guadagnano gli Oasis con ‘Wonderwall’ ogni anno
Le leggi del capitalismo lo dicono da sempre: nuovo è meglio. Da qualche anno, la stessa regola vale per la maggior parte delle persone anche quando si parla di gusti musicali. I dati parlano chiaro: nel 2018, il 54,1% degli ascolti totali su tutte le piattaforme streaming erano stati dedicati a canzoni pubblicate non più tardi di tre anni fa, e più del 40% dei pezzi ascoltati avevano addirittura solo un anno e mezzo di vita, o anche meno. Certo, si parla solo di Spotify e compagnia bella, ma pensare che il mercato musicale del fisico abbia ancora un valore centrale per stabilire trend, individuare abitudini e più in generale descrivere la società è pura illusione. Se si vuole guardare il presente e il futuro, bisogna consultare lo streaming.
Questo significa che, per forza di cose, considerata anche l'età media molto bassa degli utenti dello streaming, certi generi e certi tipi di artisti si ritrovino in una posizione di egemonia totale. Eppure, c'è una canzone che sfida questa dittatura, e la sua storia è stata raccontata in America su 'Rolling Stone' da TIM INGHAM. Si tratta di Wonderwall degli Oasis, l'unica canzone che riesce a resistere all'oblio dello streaming toccato ad altre sue nobili colleghe. E in cambio – vedremo tra poco – si toglie parecchie soddisfazioni economiche.
Facile – diranno alcuni – è la canzone più famosa di una delle ultime rockband che davvero hanno lasciato il segno nella cultura pop. Beh, certo, ora è così, ma nonostante i fan dei fratelli Gallagher l'abbiano avuta nel cuore da subito, all'epoca della sua pubblicazione il successo commerciale di Wonderwall non fu strepitoso come quello di altri singoli. Partiamo da questa anomalia: LA canzone degli Oasis per antonomasia non arrivò mai al numero 1 delle classifiche inglesi e americane. Si fermò al numero 2 in UK e al numero 8 in USA: non proprio due fallimenti, specie se si considera che gli Oasis non supereranno mai quel risultato in America, almeno nella chart generale; ma non si può paragonare all'acclamazione praticamente unanime e globale per Don't Look Back In Anger, il singolo pubblicato subito dopo, una hit totale. Eppure, oggi, conteggi di streaming alla mano, Wonderwall batte in modo schiacciante la sorella avendo accumulato quasi il triplo delle riproduzioni totali (782 milioni contro 287 milioni). Ma la vera sorpresa non sta nemmeno qui.
Il fatto che sorprende è che la canzone-ambasciatrice di (What's The Story) Morning Glory? sia l'unica pubblicata prima degli anni Zero a rimanere fissa nel top 200 globale di Spotify da due anni a questa parte, esclusa Bohemian Rhapsody (la canzone). Mi spiego meglio: negli ultimi due anni, tra le 200 canzoni più ascoltate sulla piattaforma-dominio dei "ragazzini", resiste e se la passa tutto sommato molto bene un pezzo risalente al 1995. In qualche modo questa situazione ricorda la permanenza inscalfibile e inossidabile dei Pink Floyd nelle classifiche italiane: quella presenza fissa, però, ha un'origine ben precisa nel mercato fisico, ed è un'interessante storia di trasmissione del sapere musicale che merita un racconto a parte. Il successo di Wonderwall nel mondo dei sedicenni e della trap, invece, ha tutto un altro sapore, e una spiegazione sicuramente molto differente.
Intanto, Wonderwall è un pezzo facile da suonare: ancora oggi, i suoi accordi sono tra i 15 più cercati su un sito come Ultimate Guitar. Tutto sommato, è anche facile da cantare ("I said maybeee"), senza essere talmente stupido da ripetere (magari, giusto un po' smielato). I crismi del tormentone ci sono tutti. Anche perché la produzione semplice, con un filo di riverbero e un tocco di violoncello suonato sul Mellotron da Bonehead, ha lo stesso effetto di un trucco leggerissimo sopra un volto dalla bellezza classica, che consente di stare in equilibrio tra il malumore e l'elegia, tra il rock e la ballata. Insomma, Wonderwall si lascia cantare e ricantare, suonare e risuonare, produrre e riprodurre. Non che sia l'unica canzone ad avere questo profilo nella storia, non che sia l'unico classico.
E allora serve qualcos'altro, per completare la spiegazione: un elemento esterno, che accenda l'attenzione su qualcosa di altrimenti non attuale; un po' come Bohemian Rhapsody (il film) aveva lanciato una volata pazzesca allo streaming dei pezzi dei Queen. In particolare – pensa Ingham – la riaccesa popolarità di questo pezzo deriva dal rilancio solista di Liam Gallagher, guardacaso iniziato proprio nel 2017. Da allora, mentre si è trasformato anche in un personaggio da social (specie su Twitter) non ha mostrato alcuna intenzione di togliere Wonderwall dalle scalette dei suoi concerti. Al pari del fratello Noel, che di quel pezzo è anche autore.
E qui arriviamo alla questione economica. Sì, perché con un semplice calcolo sui dati visibili pubblicamente nella chart globale di Spotify, adottando una media di ascolti giornalieri intorno ai 660mila, si arriva a circa 2400 euro al giorno, o quasi un milione di euro all'anno. Solo da una canzone. Solo da Spotify. Senza contare tutti gli altri usi della canzone, dalle colonne sonore in giù. Lo spunto dell'articolo di Ingham è l'ipotesi che, alle giuste condizioni, un pezzo storico possa scardinare il preponderante recentismo degli ascolti odierni. Forse – si potrebbe aggiungere – anche in corrispondenza dell'arrivo sulle piattaforme streaming degli ascoltatori più maturi. Ascoltatori ben felici di dare molte soddisfazioni a uno dei brani della loro vita: un milione di soddisfazioni, per la precisione.
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